Il senatore Andrea Crisanti ha invocato la "nazionalizzazione" della "sanità privata convenzionata". Le motivazioni sono un frullato di luoghi comuni e imprecisioni, una però merita di essere presa sul serio perché, seppure infondata, riflette un pregiudizio diffuso: le strutture private "ogni anno si vedono rinnovato automaticamente dalle Regioni l'impegno di spesa, senza gara ed in continuità con l'anno precedente. Questo significa che il nostro Paese, di fatto, ha eliminato il rischio di impresa per le strutture convenzionate".
Che non ci siano gare è ovvio: le strutture private non operano in regime concessorio né sono dei monopoli legali. Esse sono, semplicemente, "accreditate". Si finanziano, da un lato, attraverso le prestazioni offerte privatamente e, dall'altro, attraverso un meccanismo che gli vede riconoscere un compenso predeterminato per ciascuna prestazione, quando queste vengono svolte per conto del servizio sanitario nazionale. A differenza delle loro controparti pubbliche, non godono di trasferimenti che siano completamente slegati da prestazioni o funzioni specifiche. Per mantenere il bilancio almeno in pareggio, devono essere in grado di generare ricavi che perlomeno eguaglino i costi: devono cioè mantenere uno standard minimo di efficienza che, invece di essere disprezzato, dovrebbe fare da benchmark per la stessa sanità pubblica. Crisanti coglie forse un aspetto importante nel dire che, essendo i budget per le strutture accreditate (al pari di quelle pubbliche) garantiti, il rischio di impresa è basso. Ma il modo per risolvere la questione sarebbe lasciare scegliere i pazienti dove andare a curarsi, anziché pianificare l'offerta a tavolino a inizio anno. Immaginiamo tuttavia che, per chi invoca la nazionalizzazione della sanità privata, a quel punto il "rischio di impresa" legato alla perdita di pazienti sarebbe troppo alto per molte strutture sanitarie pubbliche, i cui limiti diventerebbero ancora più ovvi.
C'è però di più e di peggio: il finanziamento alle strutture convenzionate avviene attraverso i cosiddetti DRG. Tuttavia, esiste un tetto di spesa pubblica per prestazioni erogate da privati che sostanzialmente è fermo al 2012. In un lungo periodo in cui la spesa complessiva è rimasta pressoché invariata, questo non ha causato squilibri. A seguito dei recenti aumenti complessivi della spesa sanitaria, perlopiù destinati a compensare l'inflazione, quei tetti ai budget basati sulla spesa storica penalizzano molto le strutture private. Dal 2012, le risorse a favore della sanità pubblica sono cresciute del 30%. Ora la questione rischia di esplodere: in assenza di adeguamenti, le strutture private - come hanno denunciato le maggiori associazioni del settore, Aiop e Aris, in una lettera aperta alla presidente Meloni e ai ministri Giorgetti e Schillaci - rischiano di non essere in grado di procedere ai rinnovi contrattuali per i circa 100 mila lavoratori del settore. Sebbene la legge di bilancio abbia previsto un aggiornamento dei DRG, essa non ha simmetricamente alzato i budget. Senza questo intervento, non solo la sanità privata è a rischio, ma lo è anche la capacità del nostro sistema sanitario di curare i malati, visto che il 28% dei ricoveri e il 36% delle prestazioni specialistiche sono garantite proprio dalle strutture convenzionate.
La sanità privata svolge una duplice funzione: garantire prestazioni che il pubblico non riuscirebbe comunque a evadere e fornire uno stimolo all'efficienza economica e gestionale. Invece di mortificarlo, dovremmo creare le condizioni perché esso possa svilupparsi ulteriormente, attraverso la concorrenza tra privati e tra privato e pubblico.
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