Dovendo scrivere la nuova legge di Bilancio, il governo è comprensibilmente alla ricerca di nuove fonti di entrate per far quadrare i conti. Anche quest'anno, si discute intensamente di un tributo straordinario sulle banche, dopo quello già introdotto l'anno scorso. Questa volta potrebbe essere un'imposta sul riacquisto di azioni proprie. Al di là delle difficoltà tecniche e applicative, ci sono due ragioni per cui il ministro Giancarlo Giorgetti farebbe bene ad accantonare l'idea.
La prima è una motivazione generale: il riacquisto di azioni proprie è uno dei due strumenti principali di cui le imprese dispongono per remunerare il capitale investito (l'altro è l'erogazione di dividendi). La scelta di restituire capitale agli azionisti arriva a valle della valutazione dei possibili impieghi alternativi delle somme di cui l'impresa stessa dispone: se i manager ritengono che vi siano opportunità di investimento, sarà lì che impegneranno gli utili aziendali. Quindi, l'idea che - vietando o limitando il buyback - le banche finiranno per iniettare denaro nell'economia reale è semplicemente campata in aria, perché non c'è tassa che possa far sbocciare dal nulla utilizzi più profittevoli di quelle risorse, se prima non c'erano. È vero che, diversamente dai dividendi, che sono tassati, il buyback spesso è ritenuto preferibile perché non è tassato direttamente: ma le imposte colpiscono comunque gli eventuali capital gain realizzati da chi le azioni le vende. Non è chiaro, quindi, per quale ragione si ritenga che il riacquisto di azioni proprie sia una politica particolarmente disdicevole.
Se questo è un ragionamento valido per qualunque ipotesi di tassa sui buyback - che occasionalmente viene riproposta - vale doppiamente nel caso di un'imposta specificamente diretta alle banche. Semplicemente, non se ne capisce il presupposto. Non esiste una motivazione razionale per cui la stessa condotta, cioè il riacquisto di azioni, debba essere considerata accettabile se praticata da altre società quotate, e diventi improvvisamente indesiderabile quando praticata dalle banche. Naturalmente, le banche hanno in questi anni goduto di vantaggi spesso eccessivi e altrettanto ingiustificati (si pensi al modo opportunistico in cui hanno utilizzato le garanzie dei prestiti durante il Covid). Ma allora si intervenga sulle regalie, non sull'ordinaria gestione di impresa. E, se nonostante questo ci si convince che gli istituti di credito hanno profitti ingiustificati, allora forse bisogna guardare dalla prospettiva della concorrenza, non da quella del fisco: il dossier va inviato all'Antitrust, non all'Agenzia delle Entrate.
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