A Donald Trump va riconosciuto di aver spinto le élite europee a vedere i mali del protezionismo. Sarebbe importante che la lezione venisse appresa nella sua interezza: il problema dei dazi americani non sta nell'aggettivo, ma nel sostantivo. Le barriere agli scambi commerciali sono sempre dannose, a prescindere da chi le impone: e, se normalmente fanno più male a chi le introduce, danneggiano comunque tutti perché impediscono scambi che, altrimenti, avrebbero migliorato il benessere di ciascuno.
Eppure, proprio in questi giorni - mentre ancora e giustamente infuriano le polemiche con la Casa Bianca - sono uscite due notizie che meritano una riflessione. La prima: mentre l'Unione europea procede faticosamente verso la conclusione dell'accordo di libero scambio con il Mercosur, cresce l'opposizione da parte degli agricoltori francesi, di cui il presidente Emmanuel Macron si è fatto il terminale e che è in parte condivisa anche dalla maggioranza italiana di centrodestra. E' ovvio che ampliare i canali commerciali con l'America Latina non potrà in alcun modo sostituire quanto le aziende italiane ed europee rischiano di perdere negli Stati Uniti: ma comunque si tratta di un'opportunità che, ora più che mai, non va sprecata.
La seconda notizia riguarda più strettamente l'Italia: il governo sarebbe intenzionato a porre un freno all'acquisizione di quote di aziende "strategiche" da parte di investitori cinesi. Questo riguarderebbe tanto i soggetti partecipati dallo Stato (come Cdp Reti, dove pure State Grid Corporation of China già possiede il 35 per cento) quanto imprese private (come Pirelli, dove Sinochem ha il 37 per cento). Questa manovra, se confermata, si inserisce da un lato nella foga anti-cinese che sta montando, dall'altro nell'escalation che stiamo osservando nell'uso del golden power, il quale con la scusa di rischi strategici viene ormai utilizzato anche quando in ballo ci sono soltanto imprese italiane. Anche ammesso che vi siano imprese (o asset) che hanno una funzione critica per la sicurezza nazionale, e ammesso che la carta d'identità degli azionisti sia rilevante a tal fine, le eventuali limitazioni dovrebbero riguardare queste ultime: invece la sensazione è che si stia continuamente espandendo la categoria della "strategicità" e che con essa si allunghi continuamente la lista degli azionisti sgraditi. Di fatto, non è chiaro quale beneficio il governo intenda perseguire, ma è chiarissimo il costo: privare il paese di occasioni di attrarre investitori esteri e ridurre nei fatti il valore degli asset degli imprenditori italiani (un'operazione che più volte abbiamo definito come una patrimoniale senza gettito).
Sono due vicende molto diverse ma entrambe derivano dalla stessa radice: l'idea che "noi" dovremmo avere accesso ai mercati "altrui" ma che il contrario non dovrebbe essere vero, o comunque dovrebbe essere soggetto a severe limitazioni a "nostra" difesa. Il problema del protezionismo - vale la pena ripeterci - è che esso fa sempre male: qualunque sia la bandiera che si intende proteggere, a subirne le conseguenze sono i cittadini.
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