Il 2024 si conclude con l'approvazione di una legge di bilancio che non ha molti pregi ma alla quale va riconosciuto un merito: è interamente concepita all'interno di saldi di bilancio, oltre che compatibili con le nuove regole europee, coerenti con le ancora fragili condizioni della nostra finanza pubblica.
Nel merito, ovviamente, molte scelte sono discutibili: nelle scorse settimane abbiamo criticato, tra l'altro, la proroga delle concessioni per la distribuzione elettrica (poi parzialmente rivista), l'assurda idea di piazzare dei vigilantes pubblici nei collegi sindacali delle imprese che beneficiano di incentivi (anch'essa parzialmente corretta) e la tassa sui bitcoin (per ora rinviata). Quanto all'impostazione generale, la manovra tutto sommato compie scelte ragionevoli in campo fiscale, incardinando nella struttura dell'Irpef la decontribuzione introdotta transitoriamente negli scorsi anni. A causa dell'avvio per il momento ancora faticoso del concordato preventivo, essa rinuncia però a fare il primo vero passo verso l'agognata riforma fiscale, che a questo punto, tenendo conto che stiamo entrando nella seconda metà della legislatura, appare davvero ardua.
Dove si poteva fare di più è sul fronte della spesa. È vero che il governo deve fare i conti con l'eredità del Superbonus, che nel 2025 sottrarrà altri 38 miliardi di euro al gettito atteso, obbligando di fatto l'esecutivo a tirare la cinghia. Se questa è la ragione immediata della rinuncia a una riforma fiscale più incisiva, ma anche all'aumento di alcune voci di spesa come la sanità, essa tuttavia non può costituire un alibi per non aver avviato una vera e propria spending review. Anzi: proprio le ristrettezze di bilancio avrebbero dovuto indurre a insediare per tempo una commissione di "tagliatori di spesa", con un forte mandato politico: non quello generico di "sfoltire gli sprechi" (come nei precedenti e fallimentari tentativi) ma quello specifico di individuare intere aree di spesa pubblica in cui lo Stato fa marcia indietro. Per la stessa ragione, sembra tramontata l'ipotesi di una razionalizzazione delle spese fiscali, senza la quale è impensabile quel ridisegno del sistema tributario (a partire dall'Irpef) che costituisce da trent'anni il frutto proibito del dibattito pubblico italiano.
Detto tutto questo, va dato atto al ministro Giancarlo Giorgetti di aver mantenuto ferma la barra sul deficit, che è l'indicatore singolarmente più importante per valutare la politica di bilancio: il disavanzo nel 2025 dovrebbe attestarsi appena sopra il 3 per cento, per scendere al di sotto di tale soglia l'anno successivo. È vero che i saldi ex post potrebbero rivelarsi un po' meno severi, alla luce del probabile eccesso di ottimismo nella stima della crescita sia per l'anno in corso, sia per il prossimo, ma la direzione di marcia è quella giusta. Proprio quella mancanza di ambizione che abbiamo richiamato, però, potrebbe rivelarsi fonte di problemi: più si avvicineranno le elezioni, più si faranno forti le pressioni sul Mef affinché allenti i cordoni della borsa. E non aver spinto troppo sul pedale del rigore oggi potrebbe dare dei bei grattacapi domani. Eppure, date le condizioni in cui si è trovato a operare e l'assenza, nel quadro politico italiano, di partiti che abbiano incalzato il governo nel senso di una maggiore responsabilità fiscale, viene da dire che siamo nel più classico dei casi in cui, piuttosto che niente, è meglio piuttosto.
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