La sede di FCA e i nostri tic nazionalisti La politica pretende di trattare FCA alla stregua di Alitalia
Siamo un paese ben strano. Il Governo emana un decreto per concedere garanzie sui finanziamenti bancari alle imprese, costrette alla chiusura dalle norme anti-Covid. Una delle principali imprese industriali del paese, FCA, chiede la garanzia su un prestito di grandi dimensioni (6,3 miliardi) della durata di un triennio. Per ottenerlo, accetta di non erogare dividendi nel 2020 e a mantenere intatti i livelli occupazionali, come previsto dalla legge. Inoltre, trattandosi di un importo superiore a 1,5 miliardi, negozia ulteriori impegni con Sace (il soggetto pubblico che materialmente emette la garanzia), sempre seguendo il dettato legislativo, in materia di investimenti e sostegno all'indotto. È così che le cose dovrebbero funzionare e, se ci potessimo fermare qui, dovremmo dire che per una volta il nostro paese ha fatto quello che doveva fare, senza elargire regali (il pubblico si limita a emettere una garanzia, ma il prestito arriva da un istituto di credito privato e ovviamente va restituito).
Invece scoppia il finimondo. Diversi esponenti politici, di maggioranza e opposizione, si mettono a fare polemiche sulla politica dei dividendi della capogruppo di FCA e addirittura qualcuno chiede, come condizione per il rilascio della garanzia, che FCA sposti la sede legale dall'Olanda all'Italia (evidentemente senza rendersi conto che la sede fiscale del gruppo è nel Regno Unito). Al coro si unisce addirittura un Ministro, Peppe Provenzano, che - almeno a giudicare dal lungo post su Facebook con cui prende posizione sul tema - è ignaro del decreto che, in teoria, lui stesso ha contribuito ad approvare.
Ci sono due aspetti. Nel merito, non c'è molto da dire: FCA Italy (la società che chiede il finanziamento) ha sede legale e fiscale italiana (in caso contrario non potrebbe accedere al beneficio), paga le tasse nel nostro paese e, negli anni di vacche grasse, stacca una cedola a favore della capogruppo olandese. Gioca un ruolo cruciale nel mantenere viva un'intera filiera nella quale prosperano non poche eccellenze nazionali. Non si capisce, dunque, perché dovrebbe esserle negato ciò che è consentito a tutte le altre imprese: anzi, il Governo dovrebbe rivendicare che, grazie al suo intervento, investimenti, occupazione e know-how dell'automotive italiano sono salvaguardati.
L'altro aspetto è, per certi versi, più importante e riguarda la certezza del diritto. È vero che, per le sue dimensioni, il finanziamento richiesto da FCA è un outlier e richiede particolare attenzione (come, peraltro, richiesto espressamente dal Decreto Liquidità). Ma si ha la sensazione di un accanimento politico verso un'azienda che i nostri governanti continuano a chiamare Fiat, evidentemente senza rendersi conto che i tempi sono cambiati e che ormai l'ex Fiat è parte integrante di un gruppo multinazionale. In più, FCA sta procedendo verso la fusione con Psa, che darebbe vita al quarto gruppo automobilistico mondiale: tuttavia, trattandosi di un'operazione spinta dal mercato e non orchestrata dalla politica, la retorica dei campioni europei si dissolve e la politica pretende di trattare FCA alla stregua di Alitalia, cioè come il giardino di casa propria. Un giardino, diciamo così, che non ha nulla da invidiare a quello della Famiglia Addams.
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