La legge di bilancio per il 2025 introduce una tassa del 42 per cento sulle plusvalenze ottenute dagli investimenti in criptovaluta. Si tratta di un'aliquota quasi doppia rispetto a quella ordinaria sugli strumenti finanziari (26 per cento) e più che tripla rispetto ai titoli di Stato (tassati al 12,5 per cento). La domanda più banale che ci si può porre è: ma perché? Questa domanda è finora rimasta senza risposta, o, meglio, ha come unica possibile spiegazione il bisogno del governo di racimolare gettito, senza preoccuparsi troppo del come. Tuttavia, non sempre il fine giustifica i mezzi: e se il fine dell'equilibrio fiscale è assai lodevole - come abbiamo più volte riconosciuto al ministro Giancarlo Giorgetti e alla premier Giorgia Meloni - lo strumento oggi individuato è particolarmente odioso.
In primo luogo, c'è di mezzo la Costituzione: l'articolo 47 dice che "la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme". Non specifica e non lascia intendere che c'è un risparmio di serie A e un risparmio di serie B. Anzi: le criptovalute sono una forma di risparmio particolarmente frequente tra i giovani. Quindi questa manovra rischia di andare a colpire proprio quelli che hanno meno risparmi da parte e che in tutte le analisi sociologiche vengono rappresentati come una generazione priva di risorse e di opportunità: sono quindi quelli che più andrebbero incoraggiati. Con questa imposta, lo Stato si pone letteralmente come un brigante: una singolare forma di educazione civica, si potrebbe dire.
La stessa tripartizione dell'imposta sulle cosiddette rendite finanziarie dice molto, in trasparenza, su come funziona il processo decisionale in Italia. Al primo posto ci sono gli interessi dello Stato: se i sudditi prestano i propri soldi allo Stato, anziché investirli in attività produttive, godono di un trattamento di favore (l'imposta al 12,5 per cento). Se investono in forme di risparmio canalizzate da soggetti capaci di farsi valere attraverso la rappresentanza organizzata dei loro interessi, come le banche, allora si applica un'aliquota intermedia (il 26 per cento). Ma se qualcuno osa mettere i propri spicci in asset che sfuggono sia al controllo, sia alla rappresentanza, allora nessuna pietà: il fisco non esita a pretendere quasi la metà del guadagno.
Le forze della maggioranza sottolineano sempre, con la retorica, la propria distanza dal modello di fisco aggressivo e insensibile ai diritti degli individui. Farebbero bene ad affiancare i fatti alle parole.
Leggi sul sito dell'Istituto Bruno Leoni.