In Italia tutto viene e tutto va ma, a volte, è importante soffermarsi. La settimana scorsa, il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, ha annunciato una stretta sulle "case fantasma", cioè quegli immobili che, pur esistendo fisicamente ed essendo spesso allacciati alle utenze, sono sconosciuti al catasto oppure non hanno comunicato variazioni intervenute nel tempo. Di conseguenza, i proprietari non pagano le imposte o ne pagano meno di quanto dovuto.
La cosa dovrebbe di per sé suscitare una certa sorpresa: l'immobile costituisce il bene più difficile da occultare e la cui esistenza può essere appurata facilmente. Eppure, evidentemente gli enti locali non sono in grado di svolgere questo controllo. Il che ci porta direttamente all'oggetto della nostra riflessione di oggi: diversi anni fa, si decise di cancellare ogni diritto alla privacy dei contribuenti nei confronti delle amministrazioni fiscali nel nome della lotta all'evasione. L'offerta (peraltro impossibile da rifiutare) era: voi contribuenti diventate trasparenti agli occhi del fisco, e in cambio il contrasto agli abusi fiscali consentirà di ricavare un gettito da destinare alla riduzione delle imposte. Il contribuente ha rispettato la sua parte dell'accordo (né, beninteso, poteva fare altrimenti); lo Stato no. Infatti, pur conoscendo tutto di noi, scopriamo oggi che il fisco non vede gli immobili. In compenso, utilizza i suoi poteri per effettuare accertamenti spesso di infima rilevanza e che, in un caso su due, vengono successivamente annullati o ridotti a favore del contribuente. Cioè: l'affidabilità nello scovare gli evasori è pari al lancio di una monetina.
Ciò nonostante, in questi ultimi anni, infatti, il contrasto all'evasione ha avuto dei risultati positivi. Secondo l'ultima edizione della Relazione sull'economia non osservata e sull'evasione fiscale e contributiva del Mef, nel periodo dal 2004 al 2021 la propensione all'evasione si è ridotta dal 22,6 per cento al 15 per cento mentre il valore delle somme evase è calato da quasi 110 miliardi di euro a circa 82. C'è ancora molta strada da fare - e gli enti locali sono proprio uno dei fronti su cui occorre intervenire - ma la direzione è quella giusta. Questi risultati sono diretta conseguenza proprio dell'applicazione delle nuove tecnologie che hanno mutato il rapporto tra i contribuenti e il fisco, facilitando i primi e contemporaneamente rendendo la scelta di evadere più complessa o costosa. Per esempio, è il caso della fatturazione elettronica o di interventi settoriali in ambiti particolarmente esposti, come quello dei carburanti, dove peraltro il fenomeno è probabilmente sovrastimato. Tutto ciò ha generato un gettito notevole che però - ulteriore tradimento della promessa - non si è tradotto in una riduzione della pressione fiscale. Questa è rimasta nominalmente attorno al 42-43 per cento, in un contesto però di forte crescita della spesa pubblica (cresciuta dal 48,5 per cento pre-Covid al 55 per cento nel 2023 e, in valore assoluto, da meno di 900 a quasi 1.150 miliardi). Questo ha ovviamente comportato un incremento smisurato del debito pubblico, cioè della tassazione futura. Certo, si può argomentare che senza il gettito della lotta all'evasione la pressione fiscale sarebbe stata ancora più alta: ma ciò non fa che evidenziare l'incontinenza della politica italiana dell'ultimo decennio.
L'utilizzo dei dati personali per combattere l'evasione è stato, invece, probabilmente, assai meno efficace di quanto si supponeva. Lo Stato si è dimostrato incapace di qualunque disciplina: incapace di utilizzare in modo razionale i dati privati dei contribuenti, incapace di mettere sotto controllo la spesa pubblica. Poiché il patto si è rotto, bisognerebbe quanto meno restituire ai cittadini il loro diritto alla privacy, tanto più che, mentre il fisco si impiccia in ogni modo di loro, continuano a crescere ostacoli alla condivisione volontaria di quegli stessi dati con soggetti terzi, se non al costo di una burocrazia ipertrofica.
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