Patto di stabilità: qualunque regola è meglio di nessuna regola
Nei prossimi giorni i rappresentanti dei governi europei potrebbero trovare un accordo sul nuovo patto di stabilità. Cosa possiamo aspettarci?
Comunque vada il negoziato, ci sono alcune ragioni di cauto ottimismo. In primo luogo, a partire da gennaio torneranno in vigore in Europa le regole fiscali che, pure in modo molto imperfetto, in tutti questi anni hanno garantito al vecchio continente stabilità e crescita. L'esperienza delle finanze pubbliche da Maastricht in poi è stata complessivamente positiva. Certamente le regole sono state spesso stiracchiate, applicandole rigidamente o interpretandole con generosità a seconda delle situazioni e degli interlocutori. Ma è difficile negare che, proprio grazie a quelle regole, abbiamo potuto almeno in parte arginare la volontà dei governi europei di spendere senza esigere un gettito tributario corrispondente. Questo equilibrio si è rotto con le deroghe introdotte durante la pandemia e poi più volte prorogate. Adesso, per usare un'espressione fortunata della politica italiana, la pacchia è finita. Per quanto riguarda il nostro paese, bisogna dare atto al ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, di aver colto l'esigenza di tenere la barra sui conti prima e a prescindere dalle norme, e di aver pertanto tentato (con alterni successi) di disegnare una politica di bilancio responsabile.
La seconda buona notizia è che la proposta di riforma originariamente messa sul piatto dalla Commissione può dirsi superata. L'organismo presieduto da Ursula von der Leyen aveva ipotizzato un sistema di regole che aveva il pregio della flessibilità, ma anche l'enorme e inevitabile difetto dell'arbitrarietà da parte delle burocrazie e della politica europee. In assenza di indicazioni chiare riguardo la quantificazione del deficit e del debito consentiti, l'applicazione delle norme si sarebbe inevitabilmente ridotta ogni anno a un estenuante negoziato tra la Commissione e i singoli Stati membri, tra l'altro con una dubbia legittimazione democratica nel momento in cui (come è facile prevedere) Bruxelles si sarebbe dimostrata più tollerante con gli Stati che perseguono politiche in linea con le mode del momento. In qualche modo la stessa versione oggi vigente del patto di stabilità mette in luce questo rischio: aver spostato l'oggetto della sorveglianza fiscale dal deficit (e debito) nominale al saldo strutturale ha reso l'intera procedura più incerta e autoreferenziale.
La terza buona notizia è che sono uscite dal negoziato le proposte più o meno realistiche di esclusione, dal computo del deficit, di alcune tipologie di spesa. L'obiettivo del coordinamento della politica di bilancio è garantire, a tutela della collettività degli Stati membri, che ciascuno di essi segue una politica attenta. Lo stato di salute dei conti pubblici dipende fondamentalmente dalla capacità dei singoli paesi di finanziare la spesa pubblica e, dunque, dal valore (e dalla dinamica) del valore posto in fondo a destra del bilancio pubblico, ossia l'equivalente del "risultato d'esercizio" delle amministrazioni pubbliche. Cioè, detto in altri termini: se le entrate sono inferiori alle uscite e di quanto. Confondere le acque scomputando alcune voci può soddisfare le necessità politiche di breve termine di questo o quello Stato, ma in ultima analisi equivale a un tentativo di rappresentare i conti diversamente da come essi sono.
Dal punto di vista pratico, non è detto che trovare un accordo oggi sia meglio che rinviare la decisione a dopo le elezioni europee, dando l'opportunità alle famiglie politiche europee di spiegare agli elettori cosa vogliono e a questi ultimi di esprimersi. Ma, comunque vada, l'importante è chiudere la pericolosa parentesi aperta durante la pandemia - che ha visto l'indebolimento non solo delle regole fiscali ma anche dei vincoli agli aiuti di Stato - e tornare a una gestione ordinaria delle finanze pubbliche.
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