Street food a Firenze: serve davvero un altro divieto?
Non basta discutere del numero chiuso nell'accesso alle città: adesso comincia anche la battaglia contro lo street food.
Il Comune di Firenze starebbe valutando l'estensione a tutto il centro storico di una norma che già si applica ad alcune zone di particolare pregio: l'obbligo, per chi vende cibo da strada, di dotarsi di una saletta interna o di un chiosco al chiuso. L'obiettivo è di ridurre, se non proprio eliminare, il numero delle persone mangiano un boccone a passeggio per il lungo Arno.
È comprensibile che i primi cittadini delle località turistiche cerchino di tutelare obiettivi in parte contrastanti, quali la protezione dei luoghi di pregio e lo sviluppo delle attività turistiche. La reazione di Palazzo Vecchio appare, però, del tutto sproporzionata. Intanto, nel merito: non si può materialmente pensare di impedire alle persone di mangiare per strada. Paradossalmente, restringere la possibilità di acquistare cibo in loco finirà per indurre i visitatori a portarsi il pranzo al sacco: col risultato che quanti si lamentano dei turisti potranno aggiungere al loro cahiers de doléances il fatto che essi neppure contribuiscono all'economia locale. Solo che, in questo caso, dovrebbero prendersela col sindaco, non coi visitatori.
Inoltre, gli stessi esercenti sono stati indotti in ogni modo a ridurre il numero di coperti serviti al chiuso, a favore di strutture all'aperto e di altre forme di consumazione en plein air (incluso il desinare su una panchina, magari approfittando del clima mite). Adesso in che modo gli si può ordinare un contrordine compagni, senza riguardo non solo degli investimenti e dei cambiamenti che hanno apportato, ma anche dello sforzo "educativo" fatto - anche dalle autorità - nei confronti dei clienti?
A voler nobilitare la battaglia di Nardella e altri, si potrebbe ricordare che il problema che affrontano è noto, nella letteratura economica, come "tragedia dei beni comuni": se un bene è di tutti, cioè se non appartiene a nessuno, finirà inevitabilmente per essere depauperato. La regolamentazione è una possibile risposta, ma non è detto che sia quella più efficace - anzi, in questo caso quasi certamente non lo è. La proliferazione di norme locali di dettaglio (a cui anni fa l'IBL dedicò un libretto) finisce per complicare, anziché migliorare, la situazione.
La tragedia dei beni comuni nasce dall'assenza di diritti di proprietà ben definiti. È chiaro che non è possibile "privatizzare" in senso stretto le vie dei centri storici o le zone di interesse storico o naturalistico. Tuttavia, si può fare qualcosa di più efficace che affastellare divieti e prescrizioni: per esempio adottare forme di pricing che riflettano la scarsità degli spazi urbani ed extraurbani. Le esperienze, anche in Italia, non mancano: per esempio alle Cinque Terre è stato da tempo introdotto un biglietto per accedere ad alcuni sentieri, con l'obiettivo (e il risultato) di rendere sostenibile il numero di accessi e di fornire all'amministrazione le risorse necessarie alla manutenzione e al monitoraggio.
Anziché ragionare sempre in termini di obblighi e divieti, i sindaci potrebbero e dovrebbero usare in modo intelligente gli incentivi economici.
Leggi sul sito dell'Istituto Bruno Leoni.